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di Carlo Stagnaro

Anche nella crisi post Covid le scelte di politica economica sono votate alla conservazione.

L’economia di un paese non è una foresta di pietra da tramandare ai posteri, è un ecosistema da coltivare. Le principali scelte di politica economica del governo sono invece votate alla conservazione: cassa integrazione, divieto di licenziamento e ingresso dello stato nel capitale delle imprese sono i pilastri di una strategia di resistenza al cambiamento. Il problema è che esse sono il frutto di una convinzione che, seppure nelle ultime settimane ha iniziato a incrinarsi, rimane dominante. All’inizio della crisi, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, aveva proclamato: “Nessuno dovrà perdere il posto di lavoro per il coronavirus”.

Probabilmente, oggi non si riconosce più in un impegno tanto netto, ma l’esecutivo fatica a emanciparsene. Anche perché termini pressoché identici sono stati utilizzati dal premier Giuseppe Conte, dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dalla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Quest’ultima aveva addirittura garantito che il decreto Agosto conterrà “la prosecuzione del blocco dei licenziamenti, con alcune eccezioni come la cessazione di attività” (tanta grazia). In realtà il compromesso trovato in Consiglio dei ministri è solo formalmente più moderato: legando il divieto di licenziamento alla cassa integrazione (anche per le imprese che non la usano), nella sostanza rimane in vigore un vincolo che, in questi termini, esiste solo in Cina, Turchia ed Etiopia. In Europa, solo la Slovacchia ha adottato un provvedimento simile per breve tempo, mentre la Corea del Nord, che ce l’aveva, ci ha superato in riformismo, avendolo cancellato nel 2014.

È alla luce di questi orientamenti politici che si dovrebbero leggere gli ultimi, preoccupanti dati economici. Il tasso di disoccupazione, nel mese di giugno 2020, era dell’8,8 per cento, un poco più alto della media Ue (7,8 per cento). Il numero di ore lavorate, nei primi tre mesi della crisi, era crollato del 28 per cento, la contrazione più importante tra tutti i paesi industrializzati, circa il doppio degli Stati Uniti e quasi il triplo della Svezia. Il tasso di occupazione, a giugno, era del 57,5 per cento, mentre gli inattivi superavano un terzo della popolazione in età lavorativa (36,8 per cento). A dispetto delle promesse dei ministri, tra febbraio e giugno si sono persi circa mezzo milioni di occupati. Col risultato che l’impatto della crisi ha riguardato soprattutto i lavoratori più deboli: lavoratori a basso reddito, contratti a termine, donne e giovani.

Come spesso accade, quella che a prima vista sembra la soluzione, a lungo andare diventa il problema. L’economia di un paese è qualcosa di simile a un bosco: prospera quando può evolvere e cambiare, lasciando che fratello sole, sorella luna e zio Darwin facciano il loro mestiere. Invece, la nostra politica non solo ostacola i cambiamenti nel nome di un malinteso senso di solidarietà verso coloro che ne sarebbero le vittime, ma addirittura non li ritiene desiderabili né possibili. Sembra dare per scontato che quella che stiamo attraversando non sia una fase di trasformazione profonda del tessuto produttivo e sociale, ma una sorta di lungo giorno della marmotta, trascorso il quale ci troveremo esattamente dove eravamo il 31 dicembre 2019.

Le immense risorse impegnate nella cassa integrazione, assieme alle altre misure messe in campo (come il reddito di emergenza), hanno finora consentito di attutire l’impatto immediato della crisi, nonostante il pil nella prima metà dell’anno abbia già perso il 14,3 per cento. Il fabbisogno per mitigare gli effetti sociali della recessione potrebbe collocarsi tra 6,5 e 16,4 miliardi di euro per la sola cassa integrazione, mentre l’Inps prevede un disavanzo di 35,7 miliardi. Nell’ipotesi di un incremento del debito pubblico attorno al 160 per cento, si tratta di soldi presi in prestito dalle generazioni future, che dovranno restituirli sotto forma di maggiori tasse.

Di per sé, la cosa potrebbe destare solo una moderata preoccupazione, se fossimo convinti che, una volta usciti dal tunnel, l’Italia riprenderà a crescere e, con la ricchezza creata, potrà ripagare i debiti contratti. Spoiler: sono vent’anni che aspettiamo la svolta, ma non succede mai. Purtroppo, la ragione di ciò non è stata finora compresa dalla classe politica. Anzi: molte delle misure adottate in questi mesi tra cui il blocco dei licenziamenti e il ricorso estensivo alla cassa integrazione, ma anche l’ingresso dello stato nel capitale delle imprese in difficoltà agiscono sui sintomi della crisi pandemica, ma lo fanno in modo tale da esacerbare le cause della nostra progressiva perdita di competitività.

Cattiva allocazione del capitale e Covid
Da cosa dipende la stagnazione italiana? Le cause sono molte e complesse, ma tutte – attraverso svariati canali di trasmissione – portano alla mancata crescita della produttività. La produttività esprime la capacità del sistema economico di generare output (cioè prodotti per i quali vi sia una domanda) attraverso una certa quantità di input (capitale, lavoro e materie prime). In questo processo, sono fondamentali la tecnologia, l’organizzazione e l’esistenza di infrastrutture materiali (strade, ferrovie, reti energetiche e di telecomunicazioni…) e immateriali (l’efficacia del sistema giudiziario, il capitale umano e sociale, la qualità delle istituzioni…). Esse contribuiscono a migliorare l’utilizzo dei fattori della produzione e a orientare le attività economiche verso quei beni o servizi che sono richiesti dai consumatori.

Quindi, un paese si sviluppa nella misura in cui è in grado di fare un utilizzo efficiente dei fattori della produzione. Solo che la frontiera dell’efficienza cambia continuamente: nuovi processi e prodotti si affacciano sul mercato, i consumatori mutano le loro preferenze, degli shock esterni possono improvvisamente rimescolare le carte in tavola. Un sistema economico, dunque, è tanto più solido quanto più è capace di adattarsi a queste grandi e piccole trasformazioni. Anzi: riallocare continuamente i fattori della produzione, favorendone l’utilizzo migliore, è proprio la principale funzione dell’economia di mercato. È precisamente il motivo per cui i mercati aperti e competitivi battono i piani quinquennali. Al contrario, una produttività bassa e declinante (o comunque incapace di crescere) denuncia un cattivo utilizzo degli input produttivi: i lavoratori svolgono mansioni obsolete, l’organizzazione del lavoro in azienda non risponde ai criteri migliori, le tecnologie sono superate, ecc.

Quali possono esserne le ragioni? A volte dipende da un problema di specializzazione produttiva: le imprese continuano a produrre beni per i quali non vi è più domanda, oppure non sono in grado di produrli a costi inferiori ai prezzi che i consumatori sono disposti a pagare. In queste circostanze, in un contesto ben oliato le imprese inefficienti o sorpassate finiscono fuori dal mercato, o attraverso il fallimento (che letteralmente “libera” capitale e lavoro), oppure attraverso l’acquisizione e la ristrutturazione da parte di altre più grandi. Quando, però, tale processo di aggiustamento viene impedito, il risultato è che capitale e lavoro rimangono “intrappolati” in attività a basso valore aggiunto; se è la società a farsene carico (per esempio attraverso trasferimenti fiscali diretti o indiretti, come la cassa integrazione, o norme anticoncorrenziali che proteggono le rendite) allora è come se l’impresa inefficiente imponesse una tassa all’intera comunità.

La tassa ha due volti: redistributivo (il denaro trasferito dalle aziende sane a quelle decotte) e allocativo (la perdita di efficienza dovuta al fatto che capitale e lavoro potrebbero essere impiegati per scopi relativamente più produttivi). I precedenti abbondano: dai periodici salvataggi di Alitalia alle vicende tanto singolari quanto mediatiche come quella dell’ex Embraco di Riva di Chieri. Tale stabilimento, parte del gruppo Whirlpool, realizzava motori per lavatrici: una produzione a basso valore aggiunto sulla quale incide pesantemente il costo del lavoro, e che per questo è progressivamente migrata (assieme all’intera industria del bianco) verso l’Europa dell’Est. Dal 2017, tre governi di colori diversi hanno tentato in ogni modo di salvare l’impianto, con una girandola di tentativi disordinati di cambiarne la mission (dalle bici elettriche ai robot per pulire i pannelli solari fino alle batterie). Ma, alla fine, si è arrivati all’unica conclusione possibile, prevedibile e inevitabile: il fallimento (Luciano Capone, il Foglio, 25 luglio). Si sono persi oltre due anni, durante i quali risorse pubbliche sono state sprecate e ai lavoratori è stata negata l’opportunità di una riqualificazione professionale che li aiutasse a cercare un’alternativa. Ed essi si trovano in mezzo alla strada proprio nel momento peggiore, perché nell’anno del Covid è improbabile che il sistema economico riesca a riassorbirli rapidamente.

Quando il numero di imprese inefficienti di cui il sistema economico deve farsi carico diventa eccessivo, è l’intero paese a pagarne il fio. Uno studio del 2016 condotto da Sara Calligaris e altri per conto della Commissione europea ha indagato “l’enigma della produttività italiana”, con un risultato per certi versi sorprendente: in gran parte, la nostra bassa produttività non dipende dalla specializzazione produttiva. Anzi, all’interno di tutti i settori, imprese assai produttive convivono con altre che all’apparenza non hanno speranza di sopravvivere. L’indagine rivela un aspetto ancora più preoccupante: “Il fenomeno della crescente cattiva allocazione ha colpito categorie che tradizionalmente erano la punta dell’economia italiana, per esempio nel Nordovest o tra le grandi imprese”.

Questo problema si intreccia a un altro, quello dell’eccessiva frammentazione industriale: imprese troppo piccole non hanno le risorse per investire (per esempio nella digitalizzazione o in ricerca e sviluppo), e si trovano sistematicamente spiazzate dai cicli di innovazione. Intendiamoci: non è “colpa” degli imprenditori (o, almeno, non solo), ma anche e soprattutto di un sistema zeppo di ostacoli alla crescita dimensionale. Uno dei più importanti era il famigerato articolo 18: non a caso, come hanno mostrato Tito Boeri e Pietro Garibaldi in uno studio Inps del 2018, dopo il Jobs Act la mobilità intorno alla soglia dei 15 addetti è aumentata sensibilmente. Adesso, tra cassa integrazione e divieto di licenziamento, ci troviamo in una situazione persino peggiore di quella di partenza: chi mai assumerà un dipendente con un contratto a tempo indeterminato, sapendo che poi, se le cose andranno male e i fatturati non reggeranno, non ci sarà modo di terminare il rapporto? Vale a poco sottolineare che il divieto è temporaneo: dopo tre proroghe in un solo anno, nessuno si fiderà della sua integrale rimozione se non dopo che questa sarà effettivamente avvenuta.

La zavorra rappresentata dalle imprese inefficienti per l’economia italiana è una delle spiegazioni più evidenti (nei risultati) e complicate (nei rimedi) della nostra scarsa performance economica. Nel 2013, l’Italia (dopo la Grecia) era il paese industrializzato con la più alta quota di capitale “incagliato” in imprese zombie: quasi il 20 per cento del totale, secondo le stime dell’Ocse. E’ probabile che il problema si sia ridimensionato per effetto della crisi degli scorsi anni, che ha determinato il fallimento di molte di queste realtà. Adesso rischiamo di tornare daccapo. Buona parte della colpa è del Covid: per il resto, chiedete a Palazzo Chigi.

Marco Pagano, economista dell’Università Federico II, ha condotto assieme ai suoi coautori due studi che ci forniscono indicazioni importanti (il Foglio, 3 luglio 2020). In primo luogo, ha dimostrato che, a livello globale, la pandemia ha innescato una profonda riallocazione dei fattori della produzione, con effetti pesantemente asimmetrici tra settori e aziende: i cambiamenti nelle scelte di consumo delle persone osservate durante il lockdown sono destinati, almeno in parte, a rimanere; il sistema produttivo dovrà fatalmente adeguarsi.

Ma c’è un aspetto ancora più importante: le imprese che hanno mostrato maggiore capacità di resistere sono le stesse che, nei sei anni precedenti, avevano avuto performance migliori. Questo suggerisce che il Covid ha accelerato le trasformazioni strutturali già in atto a causa del cambio tecnologico e della globalizzazione. Lo conferma l’altro paper, relativo proprio all’Italia: sulla base di un campione di quasi 81 mila imprese, gli autori hanno stimato che nonostante le varie forme di aiuto ricevute, inclusa la Cig circa il 17 per cento saranno insolventi a fine anno. La percentuale potrebbe essere ancora maggiore se la crisi fosse più persistente e la ripresa più lenta: per ora sappiamo dall’Ufficio parlamentare di bilancio che circa un terzo della Cig è andato a imprese che avevano subito una contrazione del fatturato superiore al 40 per cento. In tal caso, il mix tra cassa integrazione e divieto di licenziamenti (per non dire delle nazionalizzazioni) non sarebbe una forma di sostegno necessaria a superare una fase di temporanea difficoltà, ma una sorta di accanimento terapeutico: un inutile e dannoso ingessamento dell’economia proprio quando essa ha il massimo bisogno di trasformarsi rapidamente.

Peggio ancora è il ricorso sempre più diffuso a forme, striscianti o esplicite, di nazionalizzazione: lo stato è entrato o sta entrando nell’equity di una pluralità di imprese, con motivazioni spesso scorrelate dal Covid. Se in alcuni casi (l’ex Ilva) ciò rappresenta l’inevitabile esito di una incredibile sequela di abbagli, in altri (Alitalia, Autostrade, Tim) è frutto dei pregiudizi ideologici sul potere taumaturgico dello stato e in altri ancora (Corneliani) rivela non solo l’incomprensione, ma addirittura il disinteresse per le conseguenze di lungo termine della “irizzazione” dell’economia.

La pretesa di garantire che “nessuno perderà il lavoro” attraverso la statalizzazione degli asset implica una ancora più forte ossificazione dell’economia, perché da un lato ne rende di fatto non più contendibile il controllo, e dall’altro ne politicizza le strategie industriali e le politiche occupazionali. In pratica, la strategia italiana di fronte alla crisi era forse ragionevole nell’immediato come mera risposta agli effetti economici del lockdown ma appare sempre meno sostenibile man mano che passa il tempo, e impedisce all’economia di riassestarsi.

Se c’è un momento in cui le politiche dovrebbero indirizzare risorse e riforme verso l’incremento del potenziale produttivo dell’economia, quel momento è adesso. Invece, l’aspettativa di immensi fondi europei che allenta i richiami al realismo rovescia il celebre motto di Rino Formica: il Covid ha reso i monaci poveri, ma il convento è (o si crede) ricco. E questa percezione può spingere il governo a perseverare negli errori che non solo hanno puntellato la gestione degli ultimi mesi, ma che hanno progressivamente fiaccato la nostra capacità di crescere negli ultimi trent’anni.

Le opportunità di Next Generation Eu
Il pacchetto Next Generation Eu che dovrebbe veicolare al nostro paese oltre 200 miliardi di euro tra finanziamenti a fondo perduto e prestiti, in aggiunta a tutte le risorse già stanziate rappresenta sia un rischio sia un’opportunità. In principio, i soldi europei dovrebbero servire a investire nel miglioramento del capitale pubblico e sostenere le imprese nelle trasformazioni digitale e green, oltre a creare condizioni sociali che aiutino a rendere politicamente sostenibili le riforme strutturali. Lo stesso disegno degli aiuti è pensato in modo tale da introdurre forti condizionalità, peraltro legate alle aree di debolezza degli stati membri.

È dunque essenziale interrogarsi su quali siano gli ambiti ove concentrare gli investimenti (a partire dalla ricerca, le infrastrutture e la scuola) e rimuovere gli ostacoli alla crescita economica, non con l’obiettivo di “gonfiarne” le performance nel breve, ma con quello di alzarne il potenziale di lungo termine. Una missione complessa, che richiede anche l’attitudine intellettuale a correggere le politiche man mano che se ne vedono gli effetti, i limiti e i potenziali sbagli. Per questo, con Guglielmo Barone e Marco Percoco abbiamo proposto di predisporre un programma di valutazione dell’effetto delle policy, e rilasciare sistematicamente i relativi dati in formato open allo scopo di trarre vantaggio dai lavori dei ricercatori indipendenti (il Foglio, 17 giugno 2020).

Un utilizzo improprio delle risorse Ue per esempio per aumentare la spesa corrente, fare redistribuzione o proteggere le imprese obsolete dai cambiamenti in atto finirebbe per deteriorare le condizioni del nostro paese e aggravarne lo stato di salute. Infatti, per un verso non si farebbe altro che protrarre e forse acuire i mali legati alla cattiva allocazione del capitale; dall’altro, si appesantirebbe il fardello del debito sulle nostre spalle. Ma anche facendo ipotesi eroiche sulla virtuosità della spesa e l’efficacia delle condizioni e dei controlli europei, questa somma di circostanze vincola l’Italia a mantenere, nel medio termine, una pressione fiscale elevata.

Per quanti sforzi si possano fare nella direzione di una razionalizzazione della spesa pubblica, gran parte delle uscite è vincolata dalla legacy di scelte precedenti (pensioni, servizio al debito, ecc.). Paradossalmente, quindi, la vera utilità degli stanziamenti di Next Generation Eu sta proprio nelle riforme strutturali che, seguendo le raccomandazioni della Commissione, il nostro paese dovrebbe essere tenuto a mettere in atto. E tuttavia, nel passato il vincolo esterno si è rivelato efficace solo rispetto a obiettivi puntuali (come la correzione dei conti pubblici negli anni precedenti l’adesione all’euro) o nei casi in cui la pressione verso l’integrazione dei mercati era realmente forte (come nel recepimento delle direttive sulla liberalizzazione del trasporto aereo e, in parte, delle altre industrie a rete).

L’esempio dei frugali
Come fare, allora, a garantire che le riforme siano adottate non con lo spirito dei “compiti a casa”, ma con la determinazione che è necessaria a renderle veramente efficaci? Purtroppo, non ci sono scorciatoie: il vincolo esterno deve diventare vincolo interno. Nessuna riforma può veramente dare i risultati sperati se non è compresa, condivisa e metabolizzata (come conferma la parabola del Jobs Act, smontato pezzo per pezzo). Data la situazione in cui si trova, l’Italia dovrebbe guardare all’esempio proprio dei paesi con cui si è scontrata in modo più violento durante l’ultimo Consiglio europeo, cioè i cosiddetti frugali.

Tolta l’Olanda, che ha un modello parzialmente diverso, gli altri quattro (Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia) hanno molto da insegnarci. Infatti, non devono il loro successo all’utilizzo della leva tributaria per attirare le multinazionali. Al contrario: hanno elevata spesa pubblica (in media il 50,1 per cento del pil, contro il 48,7 per cento dell’Italia nel 2019), alta pressione fiscale e contributiva (51,1 per cento contro 47,1 per cento), e rigida disciplina di bilancio (surplus pari all’1 per cento del pil contro un deficit dell’1,6 per cento). Dovremmo quindi chiederci: come è possibile? Perché riescono a estrarre una quota così alta dei rispettivi redditi nazionali senza compromettere la crescita, e addirittura continuano ad attrarre imprese e produrre innovazione?

La risposta sta solo in parte nella qualità dei servizi pubblici (che pure conta, e non poco). Sta soprattutto nel modo in cui essi affiancano una forte azione redistributrice dello stato a una pronunciata libertà economica. Secondo l’Index of economic freedom della Heritage Foundation, questi paesi ottengono un punteggio medio pari a 75,5 punti su 100, l’Italia ne ha 63,8. Analogamente, arrivano ai vertici in classifiche quali Doing Business o il Global Competitiveness Report, che vedono l’Italia sempre in coda al mondo industrializzato.

Per dirlo in modo molto semplice, i “frugali” reggono uno stato pesante perché hanno la mano leggera sul fronte della regolamentazione: possono tassare senza mettere in fuga le imprese perché in cambio offrono un ambiente nel quale la libertà d’impresa è tutelata e il diritto a innovare riconosciuto. Ma ciò significa anche che accettano e promuovono i cambiamenti, sostenendo i lavoratori durante le loro transizioni professionali (anche attraverso un potente investimento nelle politiche attive del lavoro), senza però frapporre alcun ostacolo all’espulsione dal mercato delle aziende in crisi.

La condizione per creare valore è accettare che vi siano dei perdenti nel gioco competitivo, i quali hanno diritto a essere soccorsi in quanto individui, ma non a vedere protette le mansioni che svolgono, al prezzo a cui le svolgono e nel modo in cui lo fanno. I frugali, insomma, riescono a sostenere uno stato che intermedia all’incirca la metà del pil perché hanno creato un sistema capace di accogliere imprese ad alto valore aggiunto, che creano ricchezza e ne condividono una quota con le comunità che le ospitano. L’Italia fa esattamente l’opposto: compie scelte normative, regolatorie e fiscali inclusa una certa tolleranza verso l’evasione tese a trattenere attività a basso valore aggiunto (la produzione di motori per lavatrici!) e, così facendo, allontana le imprese più sofisticate, avanzate e competitive.

L’opportunità unica e irripetibile di Next Generation Eu sta nella possibilità di usare i fondi per rendere socialmente accettabili le trasformazioni strutturali. Il grande rischio sta nello sforzo di reprimere ogni mutazione, ogni forma di innovazione e cambiamento nel nome del fatto che “si è sempre fatto così”. Dietro queste cinque parole, apparentemente innocue o addirittura ragionevoli, c’è la presunzione che il governo conosca il futuro e possa dettarlo, lasciando agli operatori economici il compito di scrivere alterando al massimo la calligrafia del sovrano, ma non il contenuto delle sue parole. E così ogni forzatura dall’uso perverso della cassa integrazione al divieto di licenziamento, dalle norme anti-concorrenziali alle nazionalizzazioni appare giustificata alla luce dell’obiettivo finale.

È come se il paese, avendo bisogno di un agronomo, si fosse rivolto a un esperto di esplosivi. Pochi lo hanno spiegato con l’efficacia di Friedrich Hayek nella sua lezione per il Nobel: “Se l’uomo non vuole fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà rendersi conto che (…) non può acquisire la piena conoscenza che renderebbe possibile il dominio sugli eventi. Egli quindi dovrà usare quel po’ di conoscenza di cui riesce a disporre, non per plasmare i risultati come fa un artigiano col proprio lavoro, ma piuttosto per coltivare la crescita fornendole l’ambiente adeguato, nello stesso modo in cui un giardiniere si prende cura delle sue piante”.

da Il Foglio, 10 agosto 2020

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