Ecologia e

digitale per

la politica

base

di Bruno Ruffilli

«Il meglio che oggi possiamo aspettarci dalla politica è una buona amministrazione dello status quo», dice Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione a Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. «Ma la realtà ci pone sfide enormi, e allora serve una politica ambiziosa, con una visione e una governance». Così, ne Il verde e il blu (Raffaello Cortina, pp. 278, 16 euro) Floridi applica alla politica un concetto sviluppato in altre opere, quello di onlife, ossia una vita sempre connessa in cui il digitale è reale e il reale è (anche) digitale. Ne nasce una sorta di manifesto programmatico per una politica del Terzo Millennio, che poggia sul verde dell’ecologia e sul blu del digitale. 

Cosa manca alla politica attuale?

“La capacità di assumersi la responsabilità di progettare e fare errori. Di provare a coordinare le esigenze di tutti, con la consapevolezza che alla fine qualcuno necessariamente sarà scontento. Oggi la politica rimanda le scelte più difficili al prossimo partito, alla prossima legislatura, alle prossime votazioni, all’Europa, a chissà chi”.

Questa fuga dalla responsabilità è solo italiana o c’è anche altrove? 

“Prendiamo il Regno Unito: non ha chiuso i conti col passato e pensa ancora di essere una superpotenza, così dà la colpa all’Europa; la narrativa è che con la Brexit tutto andrà benissimo, cosa che ovviamente non sta succedendo. In Italia invece si elargiscono mance a tutti, come faceva la DC: alle famiglie, al sindacato, a Confindustria, a tanti altri, e si spaccia questo per un progetto. Un approccio miope, che crea un debito sempre maggiore verso il futuro, dimenticando che il futuro siamo noi, le nostre figlie e i nostri figli”.

In un articolo per La Stampa, l’ex ministro del lavoro Elsa Fornero ricordava la Bibbia: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati”, per loro non rimarrà niente. 

“È questo il fantasma che si aggira per l’Europa, per citare Marx. Non il comunismo, ma le future generazioni, dalle quali possiamo prendere in prestito, ma che non votano”. 

Lei parla di un “trust universale”, in cui ci troviamo a nascere e dove viviamo come nodi di una rete di relazioni. Di che si tratta? 

“C’è la percezione errata che tutto nasca con noi e finisca con noi. Invece la lingua, i costumi, la politica, le istituzioni e in generale il mondo che troviamo li ereditiamo ma non sono nostri: dobbiamo trattarli con cura e lasciarli a chi verrà dopo di noi meglio di come li abbiamo trovati”. 

Tim Cook ha detto spesso una cosa del genere. Ma non è un capo di stato, è il Ceo di Apple. 

“Sarei un po’ cauto a considerare Apple o altri grandi della tecnologia come i paladini dei nostri diritti digitali”.

Eppure oggi in Italia chi lavora per aziende come Apple, Google, Microsoft, Facebook e altre multinazionali si vede tutelati dei diritti che lo Stato (e non solo il nostro) ancora non riconosce. Penso alle coppie omosessuali o alle tutele per i genitori.

“E la Ferrari pagherà lo stesso salario a uomini e donne: la notizia è che questo faccia notizia, vuol dire che fino a ieri non accadeva. Alcune aziende spingono su certi diritti, per convenienza o perché ci credono davvero; è un bene, ma ci sono angoli di mondo per i quali non hanno alcun interesse economico, e quindi nemmeno un’urgenza etica. Perciò, se le aziende sono dei motori, dev’essere la politica a usare il volante, per decidere dove indirizzare la loro spinta”. 

Se fosse stato per Google, ad esempio, non avremmo mai avuto qualcosa come il GDPR, l’insieme delle leggi che tutelano l’uso dei dati personali dei cittadini europei.

“Esatto”. 

Nel libro lancia una proposta: passare dalla res publica alla ratio pubblica. Che significa?

“La res publica, come dice il nome, si esaurisce nelle cose: i votanti, i negozi, i partiti, l’acquisto e lo scambio di consenso. Una visione atomistica della società, tipica del Novecento, che forse non funzionava nel secolo scorso e che ora non ha alcun senso. Perché quello che conta sono i servizi: Rolls Royce, ad esempio, guadagna più dal service per i motori di aerei che dai motori stessi. Così la ratio publica considera le relazioni, prima delle cose”. 

Quali sono le conseguenze?

“Significa spostarsi da una dimensione agonistica a una collaborativa. Ogni volta che qualcuno si candida “scende in campo”: è davvero una partita di calcio, dove se vince uno perde l’altro? La destra l’agonismo ce l’ha nel Dna, nel libero mercato e nella competizione, la sinistra lo ritrova nella lotta di classe, e alla fine entrambe usano lo stesso vocabolario. Tutto il 900 è intriso di politica agonistica, di vincitori e perdenti: la frase che ogni candidato dice quando viene eletto, “rappresenterò tutto l’elettorato”, arriva troppo tardi. Eppure esiste anche una politica della solidarietà, della collaborazione, della cooperazione. Uno spazio di discussione e progettualità dove si può non essere d’accordo, ma si cercano punti comuni e si costruisce partendo da quelli. Allo “scendere in campo” preferisco “venire a dare una mano”, come per una festa”.

Un altro equivoco è la democrazia diretta, senza intermediari. E invece devono esserci, dice lei: non è un difetto della democrazia, ma il modo in cui funziona. 

“L’idea – vecchissima – è che la democrazia diretta sarebbe la migliore forma di governo possibile, se fosse realizzabile. Purtroppo non lo è, quindi c’è quella rappresentativa. Ora la democrazia diretta si può realizzare, ma alla retorica del populismo digitale si contrappone il fatto che questa separazione tra chi ha il potere e chi lo esercita è essenziale. Il potere è del popolo, che lo delega ai politici sulla base di un progetto: se fanno un buon lavoro bene, altrimenti passa a qualcun altro. La democrazia diretta è solo una forma di democrazia partecipativa, ma non la migliore perché ci coinvolge quando tutto è già deciso. La complessità delle scelte viene sminuita e ci si riduce a “Sì Tav”, “No Tav”. Invece bisognerebbe chiedere ai cittadini di partecipare fin dall’inizio del processo, non quando i giochi sono ormai fatti: non invitare a una cena fatta da altri, ma invitare a cucinare insieme.”.

Per la politica spesso i cittadini sono solo un’interfaccia per arrivare al loro voto, come per le aziende gli utenti sono interfacce per arrivare ai loro dati. Come ne usciamo?

“Il rischio di essere trattati e di trattarci reciprocamente come interfacce è costante, però si può fare molto per limitarlo. Un esempio sono le norme del GDPR, che rivendicano il diritto di non essere trattato come interfaccia e basta: impongono che ciascuno sia consultato prima che altri prendano decisioni che lo riguardano, e reclamano dalle aziende una trasparenza e responsabilità che prima non c’era. Purtroppo anche noi applichiamo tutti i giorni questa modalità di sfruttamento dell’altro: i nostri rapporti sociali sono spesso costruiti come mezzo per un fine, con buona pace dell’imperativo categorico di Kant, secondo cui bisogna agire in modo da trattare l’umanità sempre anche come fine e mai solo come mezzo”.

Lei dice che la dicotomia vero-falso non ha presa sulla persona-interfaccia. Allora in politica una tesi vale come un’altra?

“Pensiamo che basti scambiarsi opinioni sui fatti in maniera civile e poi la verità trionfa. Se fosse così, non staremmo parlando dell’utilità della mascherina, dei no vax o del pericolo del 5G per la salute. La sinistra è ancora convinta che sia sufficiente spiegare bene le cose perché gli elettori la seguano, invece servono fiducia, carisma, coinvolgimento emotivo, e questo lo sappiamo dai tempi di Tucidide e Cicerone: allora si chiamava retorica, oggi marketing”. 

Per questo secondo lei uno dei mali della politica è il cattivo marketing. E si potrebbe migliorarla rendendo migliore il marketing, non eliminandolo. 

“Salvini sembra essere in grado  di vendere qualsiasi cosa, solo che la sua merce è scadente. La sinistra, invece, non vende niente, propone ricette vecchie e considera uno sciocco chi non le capisce. Un errore gravissimo, in primo luogo di presunzione”. 

Nel Capitolo 19 de Il Verde e il Blu, lei elenca 100 punti per una nuova società. Quali si dovrebbero vendere per primi?

“La serietà dell’impegno politico, che richiede fiducia di partenza e solidarietà diffusa. È l’idea da cui nasce il libro: che l’Italia riparta dall’unione di verde e blu, di una politica e un’economia sostenibili e digitali. È un cambiamento radicale, come passare dal carbone all’energia solare”.

In Francia i Verdi sono andati bene alle ultime elezioni: questo può dirci qualcosa anche della situazione in Italia? 

“In passato chi votava verde rifiutava il nucleare, diceva no al carbone, era contro i generatori eolici, ma poi dimenticava che l’elettricità serve. A volte pare che valga ancora l’equazione verde uguale luddismo, e il luddismo sarebbe un suicidio per l’Italia: bisogna invece puntare sul digitale, che può permettere di costruire un’economia circolare in cui nulla viene buttato e tutto riciclato, si consuma meno e meglio. Per questo spero che i verdi francesi abbiano un approccio più pragmatico verso la tecnologia”. 

Che differenza c’è tra il mondo verde e blu che lei descrive e un’utopia come quella di Tommaso Moro?

L’utopia ha una connotazione escapista o al massimo di critica negativa del presente, non si confronta con la realtà del mondo. Il mio è semmai un punto di vista idealistico, parlo di quello che si potrebbe fare se lo volessimo, e sono scettico sul “volessimo”, non sul “poter fare”. L’ideale non è astratto: diventa un metro di confronto per capire la strada ancora da percorrere”.

La filosofia si confronta con la politica dai tempi di Platone. Eppure l’applicazione pratica di ideali filosofici spesso si traduce in grandi delusioni: come mai?

“È un rischio, ci vuole coraggio anche per fallire. La politica è l’arte del compromesso, ma se non proviamo a realizzare gli ideali abbiamo già fallito in partenza. Se invece sbagliamo per averci provato, almeno possiamo imparare dai nostri errori e da quanto avremmo voluto fare ma non siamo ancora riusciti a realizzare. Bisogna mettere l’asticella alta, se si vuole saltare più in alto”.

Sul verde il governo attuale è un po’ carente, ma sul blu come va? Ci sono lo SpId, l’app Io, Immuni, diverse altre iniziative sul digitale.

“Ricordiamo che l’Italia è al 24° posto del Digital Economy and Society Index (DESI), in terzultima posizione tra i Paesi dell’Unione Europea.  Abbiamo la più alta densità di smartphone al mondo, ma li usiamo per Whatsapp. Il Governo, a mio parere, sta andando nel verso giusto. Ma ci vuole attenzione a non creare cittadini di serie A e di serie B, a non limitare i servizi digitali a chi ha connessione, dispositivi e conoscenze per utilizzarli: servono alternative alla portata di tutti. E va mostrata concretamente la convenienza del digitale: banalizzando, rispetto ai pagamenti con carta di credito o con app i commercianti potrebbero essere interessati alla sicurezza, al fatto che non ci sono più soldi da rubare in cassa”. 

La nuova politica in Italia ha già un volto?

“Mi piacerebbe pensare che sia quello dell’ex segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli, ma come facciamo a convincerlo?

da La Stampa, 24 Luglio 2020

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