economia

della

memoria

paola

di Paola Liberace

5   Apprendimento

Vantarti non puoi d’aver superbamente sentito; nell’universo

Dove sente sentendo di più, sei inesperto. Mostragli

Allora il semplice, di generazione in generazione formato,

che come nostro vive, presso la mano e nello sguardo.

(R. M. Rilke, Nona Elegia)

5.1     Un problema culturale

Se guardiamo alla memoria come accesso, invece che come possesso, i media digitali possono apparirci addirittura come una “benedizione”[1], perché mettendo a disposizione informazioni su luoghi diversi, anche molto lontani, possono incentivare la nostra attitudine “esplorativa”, una delle caratteristiche ancestrali della specie umana, da cui possiamo trarre beneficio – anche se questa esplorazione non si traducesse mai in un reale spostamento fisico. L’ambiente digitale, per sua natura non lineare, popolato di ipertesti e di codici comunicativi disomogenei, mette alla prova la nostra capacità di ricercare e conferire senso alle informazioni; la rapidità della sua evoluzione – sia qualitativa, con la comparsa di nuovi dispositivi, di nuovi canali e di nuovi paradigmi, che quantitativa, con l’incessante afflusso di informazioni – può sfidarla in maniera produttiva. Ci evolviamo, insomma, “from being cultivators of personal knowledge to being hunters and gatherers in the electronic data forest”[2]: ma Nicholas Carr, che descrive questa evoluzione, la vede come una regressione nella traiettoria della civilizzazione, capace di minacciare la possibilità stessa dell’apprendimento. Anche Carr riconosce, sulla scorta di alcune ricerche, che l’esercizio della ricerca e della navigazione su Web possa giovare alla nostra capacità di problem solving, educandoci a interpretare in maniera più rapida ed efficace i dati che consultiamo, e persino rafforzare la nostra memoria di lavoro – proprio quella potenzialmente più danneggiata dalla “costante attenzione parziale”. Questi benefici, tuttavia, non bilanciano i danni: il passaggio dal testo lineare all’ipertesto multimediale, secondo Carr, metterebbe a repentaglio la capacità umana di concentrazione, di approfondimento e di pensiero riflessivo.

Per l’autore, è possibile affermare che stiamo diventando più intelligenti solo a patto di ridefinire l’intelligenza umana sulla base degli standard della Rete. Si tratta di una conclusione quasi tautologica, a meno di non sostenere che esista una nozione di intelligenza assoluta a cui attenersi, e dimenticare la profonda matrice culturale di concetti come l’intelligenza, la conoscenza, e persino l’attenzione e la memoria. Walter Ong ha descritto efficacemente quanto le loro definizioni siano mutate nel passaggio dalla cultura dell’oralità a quella della scrittura. Carr, che pure lo cita, non lo segue nell’astenersi da qualsiasi interpretazione patologica di questa trasformazione, e definisce “più ampia e tradizionale” una concezione dell’intelligenza che poco prima ha invece contestualizzato come figlia di una tecnologia, quella della scrittura. Le “profondità emotive e intuitive”[3] correlate alla cultura orale, che Carr riconosce ormai impossibili da apprezzare, somigliano da vicino all’”abilità di pensare profondamente e creativamente”[4] a suo dire messa a repentaglio dall’abitudine del multitasking: eppure, da vero uomo della cultura scritta, nel primo caso Carr minimizza, mentre nel secondo si lascia andare allo sconforto. 

5.2     Un’istruzione integrata

Nelle numerose ricerche citate in supporto di argomentazioni come quella di Carr, il cuore del problema ha a che fare con le nuove modalità di lettura. Per la nostra cultura, nativamente legata alla scrittura, l’apprendimento è in larga parte frutto di studio, a sua volta connaturato alla lettura. Ma la lettura non avviene allo stesso modo su tutti i supporti: secondo la dichiarazione di Stavanger, frutto del lavoro pluriennale del network di ricercatori internazionale E-Read[5], la comprensione di testi informativi lunghi appare maggiore quando si legge sulla carta piuttosto che sugli schermi. Di più: la lettura di testi sufficientemente lunghi e complessi – tipici della stampa – risulta capace di “favorire l’attenzione mentale, la pazienza e la disciplina”, “offre esperienze emotive ed estetiche, accresce le conoscenze linguistiche e migliora il benessere economico e personale”; mentre nella lettura su supporti digitali “i lettori tendono a sopravvalutare le loro capacità di comprensione, in particolare quando sono loro imposti dei limiti di tempo, inducendoli a leggere in modo più superficiale e meno concentrato”. Tra le raccomandazioni formulate dai ricercatori spicca quindi l’esortazione a non considerare i dispositivi elettronici e le tecnologie digitali come candidati alla sostituzione del testo cartaceo, sottolineando che la loro introduzione al posto di libri, quaderni e matite non è neutrale ai fini cognitivi.

La convinzione che l’ultimo mezzo sia destinato a soppiantare i precedenti rappresenta una fallacia tipica del determinismo tecnologico, e in particolare della sua variante attiva nell’ambito della comunicazione di massa (si pensi solo alle innumerevoli profezie sulla “morte della TV”), smentita dai fatti prima ancora che dalle argomentazioni dei ricercatori. Nell’ecosistema dei media, dovremmo ormai saperlo, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, specializzandosi per l’utilizzo più appropriato secondo una sorta di evoluzione darwiniana, guidata non dalla selezione naturale ma da quella dettata dalle modalità d’uso e dai “giochi linguistici”[6] degli utenti. Nel caso delle tecnologie digitali per l’istruzione, correttamente i ricercatori richiamano la necessità di mirare, nell’insegnamento, a sviluppare negli allievi competenze specifiche di “alfabetizzazione digitale (selezione, navigazione, valutazione e integrazione delle informazioni contenute nei media digitali)”, da applicare poi in una moltitudine di contesti. Non sostituzione, quindi, in nome di un non meglio specificato e inarrestabile “progresso”, ma integrazione del digitale nei processi di apprendimento, tenendo ferme le regole del metodo che in generale presidiano l’acquisizione del sapere: la formulazione di ipotesi euristiche, il confronto tra fonti, la verifica di attendibilità. Non si tratta perciò di passare dalle poesie a memoria alla frettolosa consultazione di Wikipedia: ma bisogna realizzare che le ricerche nate dalla copia pedissequa del testo della pagina web corrispondente al primo, o al massimo al secondo risultato della pagina di ricerca su Google sono solo la versione odierna, e non meno aberrante, di quelle risultanti dall’analoga operazione amanuense su testi cartacei di qualche decennio fa, che solo nel migliore dei casi sarebbero testi di riferimento, e nel peggiore le prime pagine a stampa vagamente attinenti al tema, capitate in qualche modo sotto mano. Uno scenario che i detrattori a prescindere dell’utilizzo didattico degli strumenti digitali sembrano non ricordare, come se nel vagheggiato mondo antico la familiarità con indici analitici, bibliografie e note a pié di pagina fosse diffusa almeno quanto quella con il pane nero, il bagno fuori casa o gli animali da cortile[7]. La differenza tra gli studenti nativi digitali e i loro fratelli maggiori o genitori sta più verosimilmente nella facilità odierna di reperimento delle fonti sufficienti: se qualche anno fa per svolgere il compito era necessario almeno recarsi in una biblioteca comunale e dedicare qualche pomeriggio a mettere insieme un prodotto sensato, oggi bastano una connessione a banda larga e un PC. In altre parole, gli studenti di oggi, a parità di curiosità, di motivazione allo studio e di formazione, hanno semmai meno scuse.

5.3     (Re)Imparare a ricercare

Non cambia invece la necessità di una buona formazione di base, e di un accompagnamento ragionato all’utilizzo degli strumenti: che ieri erano enciclopedie e libri di testo cartacei, e oggi si chiamano Google Books, Google Scholar, Archive.org (e perché no, anche Wikipedia). Rispetto a questi, riveste un ruolo fondamentale l’educazione a selezionare le parole chiave e seguire i collegamenti ipertestuali più promettenti per individuare le fonti più affidabili e autorevoli. Non a caso, la prima tra le 21 competenze digitali previste dallo standard europeo DigComp[8], messo a punto a partire dal 2016 dagli esperti della Commissione Europea, coincide con la capacità di “navigare, ricercare e filtrare dati, informazioni e contenuti digitali”. Un’abilità messa a dura prova dal cambiamento delle abitudini dei navigatori – ammesso che si possano ancora definire tali – più giovani. La mia esperienza di formazione sulle competenze digitali, rivolta agli studenti delle scuole superiori in occasione dei programmi di alternanza scuola-lavoro, è del tutto sintonica con il panorama presentato da alcune ricerche[9] realizzate sulla popolazione dei cosiddetti millennials, tra i quali solo una minoranza è in grado di condurre una buona ricerca su Google, risultando “basically clueless about the logic underlying how the search engine organises and displays results”. Il deterioramento di questa abilità potrebbe suscitare nei googlers della prima ora ancora più preoccupazione dei risultati delle ricerche sudcoreane[10] spesso citate per stigmatizzare l’utilizzo di dispositivi tecnologici, potenzialmente nocivi per l’attenzione e per la memoria. Tuttavia, va riconosciuto che questa posizione potrebbe essere dettata dall’appartenenza a una generazione digitale precedente, di “migranti” invece che di “nativi”, che assiste con ansia alla riscrittura delle regole finora vigenti nella vita in Rete. Allarmarsi in questo caso riprodurrebbe il medesimo errore in cui incorrono i tecnocritici, impedendo di riconoscere nel cambiamento cui assistiamo un fenomeno fisiologico, piuttosto che patologico, legato al mutamento di un paradigma di accesso: i giovanissimi partecipanti ai percorsi di approfondimento scolastici, così come gli intervistati nell’indagine di Inside Higher Ed, poco familiari con le maschere di ricerca, si trovano perfettamente a loro agio con gli assistenti vocali e nel milieu dei social media.

BIBLIOGRAFIA

Herbold, A. (2016, January). “Digital Media Are A Blessing” – Memory Research. Retrieved from Goethe Institut: https://www.goethe.de/ins/vn/en/kul/mag/20686365.html?forceDesktop=1 

Carr, N. (2010). The Shallows: what the Internet is doing to our brains. New York, London: W.W. Norton & Company. 

E-Read. (2018). Dichiarazione di Stavanger sul futuro della lettura. Retrieved from E-read Cost: http://ereadcost.eu/wp-content/uploads/2019/03/Dichiarazione-di-Stavanger-ITA-.pdf 

Carretero, S., Vuorikari, R., & Punie, Y. (2017). DigComp 2.1. Retrieved from Joint Research Centre – European Commission: https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/bitstream/JRC106281/web-digcomp2.1pdf_(online).pdf 

Chung-a, P. (2007, June 08). Digital Dementia Troubles Young Generation. Retrieved from The Korea Times: http://www.koreatimes.co.kr/www/news/nation/2008/04/117_4432.html 

White, M. C. (2015, May 4). This is Millennials’ Most Embarassing Secret. Retrieved from Time: https://time.com/3844483/millennials-secrets/ 

Wittgenstein, L. (1995). Ricerche filosofiche. Torino: Einaudi. 

PIAAC-OCSE: Rapporto nazionale sulle Competenze degli Adulti. (2014). Retrieved from ISFOL: https://www.isfol.it/piaac/Rapporto_Nazionale_Piaac_2014.pdf

[1] (Herbold, 2016).

[2] (Carr, 2010, p. 138).

[3] (Carr, 2010, p. 56).

[4] (Carr, 2010, p. 140).

[5] (E-Read, 2018)

[6] (Wittgenstein, 1995, p. 13).

[7] Vale la pena di sottolineare, a proposito di generazioni precedenti che le indagini OCSE-PIAAC, che rilevano la comprensione del testo da parte della popolazione adulta, mostrano esiti ben più preoccupanti di quelle sugli studenti. (PIAAC-OCSE: Rapporto nazionale sulle Competenze degli Adulti, 2014)

[8] (Carretero, Vuorikari, & Punie, 2017)

[9] (White, 2015).

[10] (Chung-a, 2007)

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