IL

DIGITAL FIRST

DELL'ITALIA

Paola Liberace

di Paola Liberace

Digitalizzare non equivale solo a mettere a disposizione la tecnologia, ma richiede insieme uno shock positivo sul fronte della domanda, per creare le condizioni di una sana dinamica di mercato

Storicamente, più che un problema di reperimento dei fondi, in Italia esiste un problema di progettualità. Questo vale anche nel caso dei finanziamenti europei post pandemia per i paesi membri, stanziati nel teso negoziato culminato in estate: tra i quali quelli compresi nel Recovery Fund, da destinare alla modernizzazione delle economie nazionali, anche nel senso della digitalizzazione. Ma cosa significa digitalizzare? Per rispondere, bisogna guardare a misure che superino l’ottica di breve respiro di provvedimenti come bonus e sussidi a pioggia. Misure, insomma, che abbiano un carattere strutturale, o meglio infrastrutturale.

Infrastruttura a sorpresa

Quando si parla di digitalizzazione il pensiero corre subito alla realizzazione delle reti di comunicazione e alla diffusione dei dispositivi abilitanti alla connessione. Pur urgente, tuttavia, questo rischia di non essere il primo dei divari da colmare per il nostro paese. Secondo l’ultimo indice DESI (Digital Economy and Society Index), relativo al 2019, l’Italia è al terzultimo posto nella classifica complessiva della digitalizzazione di economia e società, venticinquesima tra i ventotto paesi europei. A sorpresa, la connettività è la dimensione nella quale registriamo la miglior performance relativa. Siamo al 17° posto per diffusione della banda larga, non abissalmente distanti dal resto d’Europa (61% IT vs 78% UE per copertura complessiva, ma che diventa 89% IT vs 86% UE per copertura NGA – Next Generation Access). Frutto – per quanto magro – di decenni di pressione sulle telco, pungolate per garantire la copertura BUL (banda ultralarga), a dispetto delle rimostranze avanzate sull’insussistenza di una reale domanda; fino alla telenovela sulla rete unica e pubblica per superare ogni dilemma sulle condizioni di mercato. La disputa tra tecnologie – da un lato la FTTH (Fiber To The Home: cavo in fibra fino all’abitazione), dall’altro la FTTC (Fiber To The Cabinet: cavo in fibra fino all’armadio stradale e poi rame) – è culminata nella diatriba sulle “aree bianche”, isolate geograficamente e quindi difficili da cablare, oltre che non sufficientemente popolate per garantire profitti commerciali. Ma proprio qui, una serie di operatori privati hanno iniziato a fornire connettività di tipo FWA (Fixed Wireless Access) o FTTT (Fiber To The Tower, cavo in fibra fino all’antenna e poi segnale diffuso su onde radio), che anche se meno veloce ha comunque permesso di superare le difficoltà logistiche, raggiungendo secondo i dati AGCOM 1,37 milioni di abitazioni a marzo 2020, e dimostrando che gli interventi infrastrutturali non devono necessariamente essere invasivi, né pubblici. Il nostro atavico debito di cavi, insomma, potrebbe rappresentare un’opportunità per le antenne: sempre secondo il DESI, siamo in terza posizione sul fronte del 5G, tecnologia che potrebbe non solo egregiamente supplire alle mancanze della connettività fissa, ma in qualche caso superarne le performance – proteste dei “no 5G” permettendo.

Un problema di domanda

Le proteste contro il 5G nascondono un deficit di stampo sociale: se in tecnologia ce la caviamo, su questo versante siamo messi decisamente peggio. La posizione italiana in termini di capitale umano è l’ultima, in discesa rispetto al già negativo 26° posto della scorsa edizione; pesano soprattutto la mancanza di competenze digitali e la carenza di specialisti ICT, malgrado gli stimoli come il credito d’imposta per la formazione 4.0, in larga parte inutilizzato. Non va meglio in tema di adozione dei servizi Internet, per il quale ci classifichiamo ventiseiesimi: qui sconfortano soprattutto l’alto numero di persone che non hanno mai usato la Rete (quasi doppio rispetto alla media UE), mentre gli utenti Web sono fermi al 74% contro l’85% comunitario, e scendono addirittura al 49% vs il 71% quando si parla di shopping online. Non a caso, visto che la stessa vendita online langue: è uno degli indicatori immobili sul fronte dell’integrazione delle tecnologie digitali nei processi produttivi e nelle offerte commerciali, su cui, secondo il rapporto, se si eccettuano i social media, non c’è stato alcun progresso. Va meglio sul versante della PA, dove ancora una volta non è l’offerta il punto debole (con un punteggio sulla completezza dei servizi pubblici online superiore a quello 88 europeo), ma la domanda: gli utenti delle applicazioni di e-government sono infatti il 32% contro il 67% della UE, in discesa rispetto al 2018.

Sarà interessante confrontare questi dati con quelli del prossimo anno, condizionati dalla spinta non tanto gentile della pandemia, che ha obbligato non solo le imprese ma anche i cittadini a spostare online fette consistenti di attività e di esigenze da soddisfare (un indizio proviene già dai dati di fruizione della musica in streaming, passati secondo i dati Deloitte per la FIMI dal 67% del mercato nel dicembre 2019 all’80% nel giugno 2020). Ma al di là della virtualizzazione forzata, esistono prove pregresse che uno stimolo altrettanto formidabile provenga da una domanda opportunamente educata: i 4,6 milioni di abbonati di Netflix nel 2020 (la stima è di Digital TV Research), raddoppiati rispetto al 2019 e ancora in crescita, sono un traino migliore di tanti altri per la connessione ultraveloce. Evidenze come fanno sorgere il dubbio che l’intervento ormai irrinunciabile, ancorché il più arduo, sia di stampo culturale. Per l’Italia digitalizzare non equivale solo a mettere a disposizione la tecnologia, ma richiede insieme uno shock positivo sul fronte della domanda, per creare le condizioni di una sana dinamica di mercato.

Non solo Estonia

La parola chiave, qui, resta “mercato”. Uno dei modelli della digitalizzazione europea è quello dell’Estonia, che a partire dalla ritrovata indipendenza nel 1991 ha visto la completa trasformazione del paese. Burocrazia e tasse sono stati azzerati, si vota online, tutti i dati dei cittadini sono in Rete e la stessa residenza è smaterializzata: tutto questo grazie a una serie di provvedimenti legislativi emessi in ottica “digital first”, come quello che prevede che la PA non possa chiedere a un cittadino di produrre un documento emesso dall’amministrazione stessa o già in suo possesso. Riprodurre un simile modello in Italia sarebbe difficoltoso non solo per la mastodontica consistenza della burocrazia nostrana, ma soprattutto per l’atavica indisponibilità dei cittadini a conferire i propri dati: si pensi solo al flop, in nome della privacy, delle app di contact tracing anti COVID-19. E dire che gli stessi dati, di continuo, vengono volontariamente forniti agli “over the top”, come Google e Facebook: segno che, piuttosto che operare una forzatura legislativa (favorendo la moltiplicazione dei cavilli per scavalcarla), sia più efficace scommettere sul mercato, agendo su misure che rendano conveniente il digitale per i cittadini – che, non dimentichiamolo, sono consumatori -, azzerandone il costo ovunque sia a loro carico e mettendo in opera leve fiscali premianti per la fruizione di beni e servizi online. Prendiamo i pagamenti elettronici, anche per i servizi di e-government, il cui costo in termini di commissioni oggi è a carico dell’utente; o la sudata equiparazione dell’IVA in UE tra libri e ebook, da convertire semmai in una totale eliminazione della tassa per l’editoria digitale (sul modello del provvedimento adottato in UK qualche mese fa proprio sull’onda della pandemia). Per l’Italia la rivoluzione più radicale, parafrasando la legge estone, suonerebbe allora: ogni bene o servizio, che sia pubblico o privato, che sia disponibile in versione digitale, online o comunque smaterializzata, non può essere erogato che in questa versione, surrogabile con quella fisica unicamente con un costo addizionale. I finanziamenti europei del Recovery Fund potrebbero coprire i costi economici di questo sforzo immane: ma cosa servirà per coprirne i costi sociali, assumendosi la responsabilità politica della digitalizzazione?

Pubblicato in Start Magazine, anno IV°, n. 3/2020, Novembre 2020/Febbraio 2021, pp. 52-54

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