Il digitale

alla prova

lockdown

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di Paola Liberace

La tecnologia diventa vera innovazione solo quando viene calata in un modello d’uso reale. Che non è necessariamente quello che era stato immaginato dai suoi progettisti

Ma i robot non dovevano rubarci il lavoro? Nemmeno avevamo finito di inveire contro la Quarta rivoluzione industriale, ed eccoci, durante la pandemia di coronavirus che ha messo in ginocchio la produttività mondiale, a benedire i droni e le auto a guida autonoma e ad auspicare l’invasione degli ultralavoratori, per nostra sfortuna ancora lungi dal sostituirci in massa. Il fatto è che tra quello che la tecnologia ci sembrava e quello che si è di-mostrata, tra il ruolo che pensavamo avesse e quello che svolge in realtà, passa una bel-la differenza: a dispetto di tutti i determinismi, infatti, la tecnologia diventa vera innovazione solo quando viene “adottata”, calata in un contesto concreto, in un modello d’uso reale – che non è necessariamente quello che era stato immaginato dai suoi progettisti. Non vale solo per la robotica, ma per i droni, le smart car, le app e più in generale per il mondo compreso sotto l’etichetta generica di “digitale”.

Nati pronti

Un mondo che può dire di aver tratto dall’esperienza estrema del CoVid-19 una serie di lessons learned. La prima riguarda appunto la necessità di raggiungere una maturità sociale, oltre che tecnologica, per fare la differenza: non a caso, la pandemia è stata l’occasione per il dilagare della videocomunicazione, surrogato di ogni tipo di scambio interpersonale. È stata questa tecnologia già matura, sia a livello infrastrutturale che di adozione sociale, a salvare tanto le riunioni lavorative quanto il saluto con i parenti, tanto gli eventi quanto le aule didattiche; mentre altre, più suggestive ma meno affermate, stavano a guardare (come la realtà virtuale, che pure ha conosciuto una certa accelerazione nell’utilizzo anche in contesti domestici). Lo stesso si può dire della macchina da guerra dell’ecommerce, con giganti globali come Amazon, improvvisamente divenuti indispensabili, che non si sono fatti trovare impreparati all’appello, al contrario dei tanti che hanno rimandato l’appuntamento con l’innovazione, in nome della fiducia nell’esperienza fisica dell’acquisto, e che si sono trovati tutto d’un tratto a dover correre ai ripari, magari aderendo a iniziative estemporanee, pur di non scomparire. Mai come in questo caso vale l’adagio evangelico: a chi aveva, la pandemia ha dato, mentre a chi non aveva granché ha tolto anche quel poco.

Smart factories

Un settore apparentemente pronto a mantenere le promesse della quarta rivoluzione industriale è stato quello dell’automazione industriale avanzata. Grazie alle innovazioni nei processi e nelle modalità di produzione, le fabbriche tecnologicamente più progredite hanno potuto pianificare la riconversione degli impianti per passare dall’abbigliamento ai dispositivi di protezione individuale, o dai motori per automobili alle valvole per ventilatori polmonari. Negli scenari pre-pandemia si sarebbe parlato di smart factories, industrie fatte per adattarsi in tempo reale ai bisogni del mercato grazie ai cosiddetti sistemi “cyber-fisici” e a un’organizzazione del lavoro flessibile e perfettamente integrata. Uno degli imperativi dell’Industria 4.0 è quello della mass customization: la capacità di produrre a livello di massa beni pensati su misura per le esigenze del singolo consumatore, nel preciso momento e nel preciso luogo in cui sono state espresse e raccolte sul mercato (anche grazie a canali di vendita altrettanto smart). Una capacità che si fonda sulla raccolta e l’analisi di enormi quantità di dati complessi in real time, per calibrare la risposta dalla progettazione fino alla logistica. La pandemia di coronavirus è stata forse la prima occasione in cui quest’imperativo è diventato pressante, costringendo le industrie a mettere alla prova la loro adeguatezza all’ideale di smartness.

Aiuti, non sostituti

Lo scenario di riconversione istantanea della fabbrica intelligente è rimasto in ogni caso un’eccezione, ostacolato dall’ingente capacità di investimento che richiede: non solo sui macchinari, ma ancor più sulla manodopera qualificata, della quale presuppone un enorme fabbisogno. Anche in un ambito come quello sanitario, il più intaccato dalla pandemia, il supporto della tecnologia si è sentito soprattutto al livello operativo, e ha lasciato intatto tutto il fabbisogno di competenze umane, specialmente ad alto livello. Questo vale tanto per l’ambito hardware quanto per quello software. Proprio per quanto riguarda il primo aspetto i robot si sono mostrati più utili, prestandosi a operazioni come la disinfezione delle corsie ospedaliere: quelli dell’azienda danese UVD Robots sono stati spediti in Cina per mettere i loro potenti raggi ultravioletti al servizio delle aree CoViD degli ospedali. Oppure, senza arrivare in Cina, sono stati impiegati nelle unità di terapia intensiva come infermieri: come a Varese, dove i simpatici “Tommy” hanno visitato i pazienti per rilevare i parametri di base e raccogliere messaggi per medici e infermieri, dispensati dai contatti con gli infetti. Il compito di monitorare ambienti e persone è uno dei più comunemente affidati a dispositivi innovativi: oltre ai robot, sono i droni ad aver agito in questo senso durante la pandemia, mentre è rimasto limitato il loro utilizzo per la consegna di beni. Al contrario, in attesa di sostituire i riders per strada, sono stati i robot Moxi a fare da fattorini interni negli ospedali del Texas, prelevando in magazzino i beni necessari (cibo e medicine) grazie a un sofisticato sistema di percezione, e consegnandoli nelle stanze dei pazienti al posto degli infermieri. Anche in questo caso, tuttavia, lo scopo non è generare disoccupazione, ma tenere il personale sanitario in sicurezza consentendogli di focalizzarsi sulla cura dei pazienti.

 Una governance politica, non tecnologica

Nel caso del software, l’idea di fare affidamento su applicazioni installate sui telefonini per tracciare i contatti ed evitare il dilagare dei contagi, ha mostrato i suoi limiti non solo in paesi in cui le burocrazie macchinose ne hanno ritardato e complicato l’utilizzo, ma anche dove è stata realizzata in maniera precoce e mirata – senza che questo impedisse di generare falsi positivi né di assistere all’esplosione di nuovi focolai. Le app di tracing sono un altro esempio di tecnologia utile operativamente, per completare il compito dei “tracciatori”, senza sostituirlo: ma la modalità manuale spesso è rimasta quella preferenziale. Le difficoltà sono sembrate superare i vantaggi, con lo scontro tra l’approccio centralizzato e quello decentralizzato, tra l’integrazione con il sistema sanitario e l’esigenza di anonimato, tra l’efficienza del tracciamento e il rispetto della privacy… Qui la lezione appresa non è tecnologica, bensì politica, e riguarda la necessità di una governance dei dati sanitari che non sia affidata al gestore del software, ma alle istituzioni – e quindi inevitabilmente rifletta le scelte di integrazione e collaborazione a livello continentale e internazionale.

Il discorso potrebbe essere allargato all’intera industria dell’innovazione tecnologica: quella che, secondo uno dei pionieri della Silicon Valley, Marc Andreessen (all’epoca inventore del browser Mosaic e oggi tra i principali venture capitalist), si è dimostrata completamente inadeguata di fronte alla sfida della pandemia. Messa alla prova dell’innovazione reale – non quella che produce costosi e superflui gingilli per pochi fortunati o le divertenti applicazioncine che li popolano, ma quella che migliora la vita delle persone – ha completamente mancato l’obiettivo. Andreessen ha rimproverato alla Valley di non aver “costruito”: di aver scelto di “non avere i meccanismi, le fabbriche, i sistemi” per produrre il necessario a fronteggiare il coronavirus. Forse è questa la più importante delle lessons learned del mondo digitale: tanto osannato e temuto da convincersi di bastare a se stesso, e che scopre ora che per “costruire” non servono solo idee, capitali, e laureati d’eccellenza, ma un’agenda politica, una visione progettuale e una strategia economica e sociale.

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