L’esperienza

di Piazza

dei Mestieri

piazza

di Matteo Colombo

Inclusione, formazione, occupazione. Con queste poche parole si può provarea descrivere l’attività di Piazza dei Mestieri, impresa sociale con sede a Torino e da anni impegnata nella progettazione e realizzazione di percorsi di istruzione e formazione professionale capaci di favorire l’inserimento sociale e l’occupabilità di tanti giovani spesso provenienti da background difficili o da situazioni di disagio economico. Risponde alle nostre domande Dario Odifreddi, Presidente della Fondazione Piazza dei Mestieri.

Che impatto ha avuto la pandemia sulle vostre attività formative? Come state gestendo la ripresa, e come immaginate lo svolgimento del prossimo anno formativo?

D. Odifreddi: Di colpo insegnanti e ragazzi sono stati proiettati in una dimensione completamente diversa, in un clima generalizzato di paura scandito dai bollettini giornalieri della protezione civile, c’era il rischio di restare immobilizzati e inerti. Ma i nostri insegnanti e i tutor si sono messi da subito all’opera. Con passione e creatività hanno iniziato a usare tutti gli strumenti possibili di formazione a distanza per continuare i percorsi didattici. Così i nostri 5.000 ragazzi che frequentano la Piazza dei Mestieri ogni anno non sono rimasti soli; ben il 95% di loro ha continuato un rapporto quotidiano coni propri insegnanti. In un momento di crisi così forte è emersa una caratteristica fondamentale del mondo della formazione professionale: “la passione educativa”, l’amore al destino dei giovani che ci sono affidati. Nella confusione generale, caratterizzata anche dalla lentezza con cui le autorità pubbliche rispondevano alla sfida in atto, ci si è mossi con responsabilità senza aspettare che tutto fosse perfetto o normato. Ma dobbiamo essere coscienti che il rapporto educativo unitamente alle caratteristiche tipiche dei percorsi di formazione professionale hanno bisogno di essere svolte in presenza ed è grave che per mesi i nostri ragazzi non abbiano potuto fare il previsto periodo di stage e non sia stato possibile farli lavorare nei laboratori. per questo motivo non appena abbiamo potuto abbiamo cominciato a far tornare gli allievi in Piazza, dapprima singolarmente (anche solo per la consegna delle pagelle) e programmando già il ritorno a piccoli gruppi almeno per la attività di laboratorio o per l’accompagnamento all’inserimento lavorativo.

Non sappiamo cosa succederà in autunno, ma noi speriamo che, con le necessarie precauzioni, si riprenda la normale attività didattica, pur non perdendo e valorizzando le esperienze di formazione a distanza che potranno essere parte integrante del percorso formativo. In ogni caso siamo il Paese che ha chiuso per primo le scuole e non sa ancora come le riaprirà e questa è una disattenzione enorme delle nostre istituzioni. Poi più nello specifico la Piazza è nota per aver dato vita a un’esperienza vera di sistema duale in cui alle attività educative si affiancano quelle produttive, e in cui i ragazzi possono fare un’esperienza di lavoro reale già nei 3 o 4 anni in cui studiano per conseguire una qualifica o un diploma. Qui abbiamo subito un grosso contraccolpo perché ristorante, pub, tipografia, panificio, etc hanno avuto una contrazione dei ricavi di oltre il 90% durante la chiusura e, anche ora che abbiamo riaperto, il distanziamento sociale incide pesantemente sul volume dei ricavi. Stiamo lavorando perché non venga meno la sostenibilità di un modello che in questi 15 anni si è rivelato vincente portando migliaia di giovani a recuperare la stima di sé e a essere inseriti nel mondo del lavoro.

Che ruolo immagina per l’istruzione e formazione professionale nel percorso di ripresa che ci attende?

D. Odifreddi: I percorsi ordinamentali di formazione professionale (IeFP e ITS) saranno essenziali nel prossimo futuro. La formazione, come gran parte del mondo del terzo settore, ha dimostrato di essere un pilastro fondamentale per la tenuta sociale e lo sarà ancora di più. La passione e la capacità di rispondere ai bisogni delle persone accompagnandole e accogliendole, che queste realtà hanno dimostrato, anche durante la crisi della pandemia, sono un asset fondamentale per ripensare il nostro welfare. La speranza è che governanti e task force varie se ne rendano conto imparando una volta per tutte a valorizzare le esperienze che funzionano e che nascono dal basso senza pretendere di imbrigliarle in modelli astrusi e astratti. È paradossale l’incapacità di coinvolgere questi soggetti nella definizione delle politiche educative. Siamo un Paese che da 20 anni penalizza i giovani: quando dobbiamo pensare una legge di bilancio discutiamo solo di pensioni e se parliamo di riforma della scuola il tema sono i precari assunti con test a crocette. Siamo su una bomba a orologeria, abbiamo pochi ragazzi e la legislazione non sostiene chi vuole farsi una famiglia. A pochi giovani diamo poche opportunità, non investiamo su di loro e tuteliamo i vecchi: questa combinazione spinge l’Italia verso un default umano e sociale a cui seguirà quello economico – finanziario. Al tema dei giovani si affiancherà in modo crescente quello di strutturare un set di politiche attive per gli adulti che preveda azioni di upskilling e reskilling.

Secondo lei, a seguito della pandemia, dovrete organizzare ex-novo corsi destinati alla formazione di nuove figure professionali, o ripensare alle competenze dei profili professionali in uscita?

D. Odifreddi: La Pandemia ha accentuato processi già presenti da tempo. La velocità del cambiamento, la nascita di nuovi ambiti di sviluppo che richiedono competenze non presenti nell’offerta del sistema educativo, la crescita di innovazioni tecnologiche che aprono a nuovi modelli e paradigmi, generano, in modo crescente, un effetto spiazzamento per molti lavoratori.

Il sistema educativo non può non accettare la sfida di tentare di costruire risposte operative comprendendo che il focus non va posto sul sapere enciclopedico, ma sulla capacità di imparare a imparare; in questo contesto è fondamentale iniziare a lavorare seriamente sulle c.d. soft skills come noi in Piazza dei Mestieri abbiano iniziato a fare da due anni, ripensando i programmi annuali di insegnamento e mettendo a punto un sistema di valutazione interno per verificarne l’impatto sulla capacità di apprendimento. Un altro aspetto importante su cui lavorare, che la pandemia ha evidenziato, è la presenza di un analfabetismo digitale diffuso che richiede lo sforzo di dar vita all’implementazione di un piano di digitalizzazione a livello nazionale, anche al fine di ridurre il divario tra classi sociali.

In tema di figure professionali è poi del tutto evidente che vi sono ambiti in cui occorre investire in modo significativo. Si tratta, da un lato, di pensare a nuove figure professionali in campi come l’ICT, il delivery, la sanità, la cura della persona e, al contempo di ripensare e riconfigurare i percorsi relativi a figure tradizionali come quelle che operano ad esempio nel campo della ristorazione e/o della comunicazione. In questa direzione ci si è mossi recentemente ed efficacemente come enti di formazione (attraverso l’associazione di rappresentanza nazionale FORMA di cui sono Segretario Generale) in collaborazione con le Regioni nel faticoso compito di ridefinire e ampliare il repertorio delle qualifiche professionali.

In Piazza dei Mestieri stiamo lavorando su entrambi i fronti soprattutto attraverso la costruzione di Accademy che coinvolgono in modo stabile e strutturato imprese e enti di formazione. Questa scelta è legata alla convinzione che non sia sufficiente ripensare i profili professionali, ma che occorra anche generare iniziative che abbiano una massa critica adeguata a realizzare i necessari investimenti e per accumulare il know how che solo iniziative di ampio respiro possono garantire.

Quali sono, a suo parere, le principali criticità che limitano le potenzialità della vostra offerta formativa, e come risolverle?

D. Odifreddi: Innanzitutto, c’è un problema culturale che si protrae da decenni e che anche in questi tempi emerge in tutta la sua drammaticità. Siamo un Paese che fa tante politiche passive (cassa integrazione, reddito di cittadinanza, contributi a pioggia…) mentre non investe in quelle attive (formazione professionale, accompagnamento al lavoro…). In poche parole, ci stiamo abituando a essere una società di sussidiati. Una società che pensa a come distribuire la ricchezza senza porsi il problema di come produrla. Difendiamo i posti di lavoro, ma non il lavoratore.

Occorre fare esattamente il contrario, investire in modo significativo sull’educazione e sulla formazione professionale per preparare i giovani alle sfide del futuro e per aiutare chi perde un lavoro a sviluppare conoscenze e competenze che non lo mettano ai margini della vita sociale e lavorativa. A titolo di esempio basti pensare che nei 75 miliardi già stanziati con i Decreti Scuola e Rilancio non c’è un euro sulla formazione professionale (ITS e I&FP) né come investimento sul futuro e neppure per fornire agli studenti delle minime dotazioni per poter accedere alla formazione a distanza. Tra l’altro, spesso le famiglie dei giovani che frequentano i percorsi di formazione hanno redditi medi bassi e cosi si perpetua il delitto di negare loro il diritto allo studio e si aumentano le diseguaglianze. Senza investimenti in formazione non ci sarà futuro per i giovani. Non ci sarà speranza per chi dovrà prepararsi per nuovi lavori, non ci saranno persone adeguate a supportare le sfide delle imprese e non ci sarà futuro per il nostro Paese. Se non si cambia questo paradigma le criticità arcinote che impediscono un reale sviluppo della formazione professionale non si risolveranno mai. Solo se capiamo questo inizieremo a rendere fruibile per tutti e in tutte le regioni italiane il diritto a frequentare percorsi di (IeFP) oggi presenti in misura significativa in un pugno di regioni. Solo così gli ITS diverranno un pilastro per lo sviluppo del sistema economico. Già oggi le esperienze in atto dimostrano un’enorme efficacia in termini di lotta alla dispersione, di qualificazione professionale, di tassi di finalizzazione occupazionale.

Una prima proposta per risolvere, o almeno iniziare a superare, le criticità oggi presenti potrebbe agire su una pluralità di leve utilizzando le ingenti risorse che stanno per affluire da fonti comunitarie all’Italia unitamente a quelle stanziate in disavanzo dal nostro paese:

La leva del sistema educativo: portare a compimento la possibilità di una ampia possibilità di scelta per i giovani e le loro famiglie. Rendere effettivo in tutto il Paese il diritto ad accedere alla Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) e ai percorsi di istruzione terziaria non accademica (ITS); riformare con coraggio tutto il sistema dell’istruzione professionale di Stato, strutturare con maggior efficacia i percorsi di alternanza scuola-lavoro anche con la possibilità di attività strutturate all’estero; potenziare e rendere stabile la possibilità di un sistema duale;  sviluppare un piano coordinato a livello nazionale per il Sud.

La leva fiscale: una decontribuzione che favorisca i giovani, agendo prioritariamente sui flussi, rendendo più breve il tempo dell’inserimento lavorativo di chi termina gli studi. Utilizzare in modo diffuso lo strumento dell’apprendistato di primo livello anche agendo sulla semplificazione delle norme che lo regolano.

La leva di Welfare: affiancare a misure di tutela del reddito (che devono avere natura temporanea) forme di sostegno attraverso un sistema assicurativo/previdenziale ad hoc per i giovani e per chi perde il lavoro. Facilitare le assunzioni dei giovani nel sistema pubblico anche con redditi inferiori ai minimi contrattuali per un periodo massimo di 12 mesi nei settori a forte ritorno (basti pensare alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale). Coinvolgere il sistema del credito in un vasto programma di prestito d’onore per i capaci meritevoli e nel sostegno alle start up di imprese giovanili.

La leva delle politiche attive: strutturate in una logica di cooperazione tra pubblico e privato, sburocratizzate, capaci di premiare il merito (cioè i risultati oggettivi), incentrate sulla domanda e non sull’offerta, caratterizzate da servizi chiaramente identificabili e a costi standard.

Come giudica un possibile allargamento del ruolo dell’istruzione e formazione professionale, alla formazione degli adulti, specialmente disoccupati?

D. Odifreddi: Se, come detto in precedenza, non ci si avvia sulla strada di ripensare il paradigma del sistema educativo comprendendo la sua essenzialità per il futuro del paese sarà difficile anche pensare a forme efficaci di riqualificazione degli adulti che perdono il lavoro. Detto questo le istituzioni formative presenti sul territorio e le fondazioni ITS potranno giocare un ruolo decisivo nell’ambito della riqualificazione promuovendo piani di upskilling e reskilling. Un primo esempio concreto potrebbe essere quello di articolare tali piani con percorsi (di breve o media durata), gestiti dalle istituzioni formative, rivolti ai percettori del reddito di cittadinanza che necessitano di riqualificarsi. Con un investimento di circa 300 milioni di euro, che potrebbe integrare l’ordinaria programmazione regionale, si potrebbe garantire a circa 135.000 persone l’inserimento in percorsi formativi aderenti alle esigenze delle imprese, facendo sì che questa forma di inclusione sociale e lavorativa rafforzi le loro capacità, per un pieno recupero del loro ruolo professionale e sociale. È questo un esempio di come politiche passive e attive possono essere coniugate in modo efficace. Sulla stessa lunghezza d’onda ci si potrebbe muovere nel pensare a una maggior strutturazione dei percorsi di riqualificazione previsti dai fondi interprofessionali o nel sostenere lo sviluppo delle fondazioni ITS come veri e propri hub di competenze settoriali al servizio delle imprese del territorio.

Perché scegliere, oggi e domani, i percorsi di istruzione e formazione professionale? Che relazioni cambiare, o sviluppare, con il mondo della scuola, dell’istruzione terziaria e del sistema produttivo?

D. Odifreddi: Nelle Regioni in cui esiste una vera (seppur ancora insufficiente) infrastruttura formativa è già del tutto evidente che essa è in grado di intercettare i bisogni che emergono sul territorio, di dialogare con il sistema imprenditoriale per costruire percorsi capaci di facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani e al contempo di garantire a chi già lavora un supporto importante nel sempre più decisivo percorso di formazione lungo l’intero arco della vita. Costruire e potenziare questa infrastruttura nel paese è la vera forma di tutela per i cittadini, è il vero nuovo articolo 18 che non tutela il posto di lavoro, ma il lavoratore. È un tassello fondamentale per aumentare il tasso di occupazione e la produttività.

Un sistema formativo efficace e efficiente (accanto a un sistema scolastico e universitario meno burocratizzato, più aperto alla valutazione, con maggiore capacità di selezionare secondo principi di merito gli insegnanti) è condizione necessaria per rendere operativo un nuovo patto generazionale. Perché il problema nasce ben prima della Pandemia, siamo il paese in cui la crisi del 2009 ha massacrato i giovani, nell’ultimo decennio il tasso di disoccupazione giovanile è schizzato arrivando a punte del 40% e le persone sotto i 39 anni sono quelle che hanno visto diminuire in modo drammatico la partecipazione alla massa salariale. In tal senso si può affermare che sempre più i giovani appartengono a quella che Ricolfi definisce la terza società, quella degli esclusi, di coloro che non hanno mai trovato una reale rappresentanza.

Potenziare la filiera formativa vuol dire anche rafforzare e innovare il rapporto con il sistema delle imprese ad esempio dando vita a progetti congiunti come le Academy di settore, convincendo le imprese stesse a investire risorse in queste nuove progettualità.

Noi, come già detto, con la Piazza dei Mestieri lo stiamo già facendo nel campo dell’ICT e del food e la risposta è molto positiva.

Anche le relazioni con le scuole e l’università devono fare un salto di qualità; per troppi anni ci si è concentrati sul tema delle passerelle ignorando le profonde distinzioni che esistono tra il sistema formativo e quello scolastico. Differenze che risiedono essenzialmente in un modo diverso di apprendere, di rapportarsi col sistema economico del territorio, di valorizzazione dei talenti attraverso una personalizzazione dei percorsi. In tal senso lo sciagurato tentativo in atto di ricondurre il sistema degli ITS nell’alveo dei percorsi professionalizzati (lauree professionalizzanti e simili) è profondamente errato e figlio di una cultura in cui permane una frattura tra educazione e lavoro. Non si deve scolasticizzare la formazione professionale, ma creare occasioni di contaminazione tra i diversi segmenti dell’ambito educativo. Per questo, in Piazza dei Mestieri, noi abbiamo strutturato una collaborazione con oltre 100 scuole di primo e secondo grado del territorio che va dall’aiuto agli studenti in difficoltà per recuperare i deficit di apprendimento (spesso uniti a quelli di natura motivazionale) alla formazione su temi specifici degli insegnati delle scuole di ogni ordine e grado.

Ma anche il sistema formativo deve mettersi in gioco accettando la sfida di innovarsi, aprendosi con più decisione a sottoporsi a un sistema di valutazione trasparente, prendendo senza timore la via dell’integrazione tra percorsi formativi e attività produttive, strutturandosi come un insieme di agenzie dotate di una pluralità di strumenti per operare nell’ampio e variegato ambito delle politiche attive. In sintesi, di tratta di ripensare davvero il sistema educativo del nostro paese come hanno affermato in modo variegato e deciso in questi ultimi tempi Mattarella, Visco, Giannini, Recalcati, De Bortoli, Asor Rosa, Giovannini e tanti altri. Un ripensamento culturale a cui consegua un adeguato piano di investimenti in termini di infrastrutturazione fisica dei luoghi di apprendimento (sicurezza degli edifici, dotazioni tecnologiche, etc) e di risorse dedicate a incrementare e ad aumentare l’offerta dei servizi educativo – formativi, garantendo così una vera libertà di scelta ai giovani e alle loro famiglie, senza discriminare i più bisognosi.

Questa è la condizione per una vera ripartenza del nostro paese, per sostenerne lo sviluppo sociale ed economico e al contempo per formare quelle nuove classi dirigenti di cui ha assoluto bisogno l’Italia se non vuole restare ai margini di questo grande cambiamento d’epoca in cui si stanno ridisegnando gli equilibri mondiali.

da ADAPT, 22 giugno 2020

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