Perchè

essere

onlife

floridi

di Alba Solaro

Luciano Floridi, al quale GQ dedica il prologo del numero di settembre, 55 anni, è una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea. Professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico per la data science, ha appena pubblicato con Raffaello Cortina Editore Il verde e il blu. Idee ingenue per migliorare la politica. Il 16 novembre sarà al Teatro Franco Parenti di Milano. Qui, l’intervista di GQ.

La filosofia, più che darci le risposte, è quella che ci insegna a fare le domande giuste, e mai come oggi ne abbiamo bisogno perché siamo nel pieno di una trasformazione radicale di cui ancora stentiamo a cogliere il potenziale. È quella che Luciano Floridi, dalla sua cattedra di Filosofia ed Etica dell’informazione a Oxford, ha definito “la quarta rivoluzione”. Abbiamo avuto quella copernicana, la rivoluzione industriale e quella digitale. Ora «stiamo assistendo a una migrazione senza precedenti: siamo la prima generazione che dalla dimensione fisica è passata all’infosfera, un’ecosistema che ci mette al centro di una produzione senza precedenti di dati e informazioni». La comunicazione è diventata il mondo in cui viviamo, spiega Floridi, che ama definirsi un filosofo digitale e ha un talento da divulgatore che riempie i teatri – come il Franco Parenti di Milano, dove il 16 novembre terrà una lezione su come il digitale può aiutarci a salvare l’ambiente. «Dalle start-up di provincia fino ai movimenti come le Sardine», segnali del bisogno di cambiamento ce n’erano già prima della pandemia, eppure stenta: «Siamo sempre fermi alla prima pagina. Le iniziative non mancano, ma è come se non riuscissero a trovare il terreno per mettere radici e crescere».

Cosa ce lo impedisce?
«Non è solo questione di buona volontà. Ci vogliono le condizioni sociali, economiche e politiche giuste. In politica come nei giornali, università, cultura, intrattenimento, l’iniziativa spontanea non manca ma perché quelle scintille diventino un fuoco dobbiamo unire le forze. E questo comporta un cambiamento di mentalità, significa che debbo sacrificare qualcosa del mio modo di pensare per poter stare con te. Rinunciare alla mia idea di perfezione per fare qualcosa di buono insieme agli altri. Ma questo non succede».

Non siamo veramente disposti a innovare?
«Più che altro non siamo disposti a fare compromessi affinché l’innovazione diventi reale. Insomma, per fare le cose fatte bene bisogna sporcarsi le mani. Ma chi le vuole fare bene è proprio la persona che non vuole sporcarsi le mani».

Durante la pandemia ci siamo sentiti tutti migliori. Più empatici, solidali. E ora? Per lei il bicchiere è mezzo pieno  o mezzo vuoto?
«Io sono per il bicchiere che si può riempire. È vero, nei giorni del lockdown la spina dorsale si è un po’ raddrizzata, la parola solidarietà ha ricominciato a circolare, ci siamo accorti che come umanità si può fare qualcosa di meglio. Questa spinta che si è creata non dissipiamola, c’è tanto bisogno di buona politica. Si è aperta una finestra che non resterà aperta a lungo, non sprechiamola».

Che cosa intende per buona politica?
«Un conto è dire: dove vogliamo andare? Un altro è mettersi in cammino e andarci. La buona politica si realizza muovendo da un’economia delle cose a un’economia dell’esperienza. Ci vuole un capitalismo della cura, anziché del consumo del mondo. So di essere una voce nel deserto, ma non penso che qua si tratti di buttare via il capitalismo; è come voler cambiare strada e buttare via la macchina; se invece la usassimo per andare in quella direzione? Si tratta allora di modificare il dna del capitalismo, producendo più verde e più blu: più sostenibilità ambientale e più digitale. Non si tratta di dare una mano di vernice a quanto stiamo già facendo, bisogna proprio cambiare lavoro; ispirarsi a imprenditori come Giovanni De Lisi che ha fatto diventare sostenibili anche le traversine dei binari ferroviari riciclando pneumatici. Se continuiamo a pensare che o vince l’industria o vince l’ambiente, siamo fermi al ’900 e avremo perso. Che cos’è che ci mancava ieri per poter cambiare? Due cose, che abbiamo oggi: fermarci, e un sacco di soldi. Ecco: ci siamo fermati. E adesso che dobbiamo premere play e ripartire, vogliamo farlo con la stessa mentalità? Arrivano investimenti che l’umanità non ha mai visto in vita sua. Ma se sento parlare di ponte di Messina, Alitalia, mi piange il cuore. È una visione vecchia di almeno mezzo secolo. Va portata nel nuovo millennio, perché tra cent’anni nei libri di storia i nostri nipoti non leggano che nel 2020 gli uomini ebbero l’opportunità di cambiare strada, e non fecero nulla».

Per riprogettare il mondo lei chiama in causa la “filosofia come design concettuale”; può illuminare chi come noi davanti a questa definizione pensa a una lampada?
«La lampada in realtà è un ottimo esempio. Mettiamo che debba comprarne una per casa, non avrò in mente un unico modello, la scelta è sterminata. A me però serve che si adatti a una precisa circostanza, la cucina o la stanza dei bambini. Dovrà avere quello stile per accordarsi con la mobilia. E possibilmente stare dentro un certo budget. Abbiamo dunque quelli che in gergo chiamiamo dei vincoli; ma abbiamo anche le opportunità. La lampada non solo farà luce, ma anche arredo. È la soluzione per un problema che rispetta i vincoli, e trae vantaggio dalle opportunità. Sono gli ingredienti fondamentali di ogni oggetto di design. Che c’entra con la filosofia? Basta sostituire l’oggetto con un concetto. Platone, Aristotele, Kant, Hegel, sono stati tutti grandi designer di concetti che ci hanno aiutato a “disegnare” meglio il mondo, capirlo di più, forse migliorarlo. E se di lampade ce ne sono migliaia, adatte per ogni necessità, lo stesso vale per le idee. Sono tante, ma in questo ristorante chiamato Filosofia nessuno sinceramente si è mai lamentato perché in menù ci sono troppi piatti, o troppi vini».

Qual è l’innovazione tecnologica che le piace di più?
«Lo vede questo attrezzetto? (mostra un piccolo oggetto simile a un mini iPod, ndr). Mi piace molto nuotare, e mentre nuoto ascolto libri bellissimi grazie a questa piccola cosa: è un lettore di audiolibri che funziona anche sott’acqua e costa appena venti euro. Un meraviglioso privilegio da 21esimo secolo».

A proposito: lei sostiene che il mondo non è più online oppure offline. In realtà è onlife. Ci spiega in che senso?
«Nulla come il lockdown ha mostrato quanto l’essere online e offline si siano fuse in un’unica esperienza. Non è più questione di uscire dal mondo virtuale per entrare in quello fisico e viceversa, viviamo in un mondo dove queste due dimensioni sono ormai intrecciate. Onlife è il ristorante che lavora grazie agli ordini sulle app. È l’insegnamento che ci ostiniamo a pensare come fisico in contrapposizione a digitale. Perché, se possiamo avere tutt’e due? Pensiamo piuttosto a cablare il territorio. Massimo D’Azeglio disse: fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani. Io direi: fatta l’Italia, bisogna fare l’Italia digitale».

Nel suo libro elenca 100 idee “ingenue” per migliorare la nostra politica. Quale sceglierebbe come viatico per il futuro?
«La 59. Dice: “I due valori fondamentali che qualificano le relazioni sociali e politiche sono la solidarietà e la fiducia”. Solidarietà tra noi, le istituzioni, l’ambiente. E fiducia come gesto di coraggio; se non hai fiducia, come fai a lasciare il porto e veleggiare verso qualche altra parte?».

Cosa le dà speranza?
«Una cifra, che in Italia è bellissima. Abbiamo 6 milioni e mezzo di volontari. Su 55 milioni di abitanti, è moltissimo. Allora non è che mancano solidarietà e fiducia. È che non le sappiamo mettere a frutto. E non venitemi a dire che è un mondo di cinici, di gente che non crede più a niente, perché quei sei milioni e mezzo dicono che non è vero; è quel numero che mi dà speranza».

Da GQ, 12 settembre 2020

Grazie per averci contattato!